Crudità e freddo inesorabile fanno da sfondo a questo romanzo di McCarthy, tagliente e spietato. Un padre e un figlio – apparentemente gli unici abitanti di un pianeta incenerito e inospitale – iniziano un cammino, dalla durata indeterminata e dalla meta incerta, con l’obiettivo di trovare luoghi che ancora possano ospitarli e permettergli di vivere dignitosamente.

Lungo la strada i due spingono un vecchio carrello, contenente coperte e qualche rimasuglio dei loro ultimi viveri. La sporcizia e la desolazione non soltanto circondano i due protagonisti: li possiedono.
La strada si trasforma ben presto in una cupa metafora: è un ritorno, il ritorno alla bestialità, al primitivo. L’uomo e il bambino, inizialmente soli, si scontreranno, lungo il loro cammino semi-silenzioso, con altri personaggi – come animali che incontrano altri animali. È come se nel romanzo ci fossero una serie di branchi, di razze animalesche che lottano per la sopravvivenza (razziando, aggredendo, fin’anche arrivando al tentato omicidio): in un mondo che non ha più alcuna parvenza di umanità è la legge del più forte a dettare le regole del gioco per la salvaguardia del sé.

E questa bestialità primitiva arriverà anche a colpire un insospettabile, “uno dei buoni”. Perché la strada non perdona; la strada è solitudine, è riflessione, è angoscia; la strada fa capire a chi la sta percorrendo la sua vera identità.

Pubblicato il 16 marzo 2015 su inkbooks