#LeggendoClarissa 1 [lettere 1-6]

Inizia ufficialmente il nostro viaggio all’interno di “Clarissa”, il romanzo più lungo della letteratura inglese. Noncurante della mole della sua seconda opera, Samuel Richardson, inserisce nel romanzo anche una prefazione, dove ci viene presentata la modalità attraverso cui la trama procederà sotto i nostri occhi.

Si tratta di una costante corrispondenza epistolare “doppia e tuttavia separata” che avviene, principalmente, tra due fanciulle di virtù e onore che si scambiano un’amicizia inviolabile, e fra due gentiluomini dalla vita libera. Inizialmente – e per molte pagine – leggeremo le lettere di Clarissa Harlowe – l’eroina protagonista – e Anna Howe.
Richardson sembra quasi presentarci delle scuse per la lunghezza di quanto è riuscito a scrivere e pubblicare, con la parole “il cuore di chi scrive è totalmente impegnato nel suo argomento”; come a dirci “perdonate il romanzo prolisso, ma la tematica mi stava così a cuore che non ho proprio potuto tagliare nulla”.

In verità, come apprendiamo dall’introduzione del 1996 di Masolino d’Amico, Samuel Richardson scrisse e riscrisse, tagliò e ritagliò varie volte il suo “Clarissa”.

Dopo un utile elenco dei personaggi principali e dei loro ruoli all’interno del romanzo, ecco che gli scambi epistolari possono finalmente avere inizio. Per mezzo della prima lettera di Anna Howe veniamo  a conoscenza di alcuni piccoli dettagli relativi alla famiglia Harlowe: Clarissa, infatti, ha una sorella e un fratello (i quali, in queste prime fasi della narrazione, saranno ben presenti sulla scena e con un ben preciso ruolo negativo): Arabella e James. Facciamo, inoltre, conoscenza pressoché immediata del personaggio maschile principale della vicenda: il signor Lovelace. Straordinariamente interessante risulta notare la scelta del cognome dell’uomo da parte dell’autore. In esso, infatti, viene racchiuso il senso stesso di un personaggio “love-less” – senza amore. Scopriremo più avanti cosa Richardson intende. Rifiutato da Arabella, il signor Lovelace, pone le proprie mire sulla più giovane e pacata Clarissa.

Dedito ai vizi e attivo sostenitore del Grand Tour tanto in voga in quel secolo, il signor Lovelace viene presentato al lettore nelle pagine successive tramite due differenti prospettive: quella di Clarissa e quella di Lovelace medesimo. Se Clarissa Harlowe scrive “malgrado tutte le sue rispettose assiduità, era facile osservare (anche se non fosse stata la sua reputazione universale) che la sua indole è per natura altezzosa e violenta; e io avevo visto troppo di quello spirito intrattabile in mio fratello per apprezzarlo in un altro che sperava di imparentarsi con me in modo ancora più intimo”, la dichiarazione di lui è ben più incisiva: “che se un uomo non riusciva a far confessare a una dama corteggiata di essere soddisfatta di lui, tanto valeva, e anzi, spesso ancor di più per i suoi scopi, farla arrabbiare con lui”. Un Marco Ferradini del Settecento, insomma, che “all’occasione sapeva motteggiarsi da solo, l’uomo più libero che avesse mai conosciuto”.

A seguito del primo – ammetto tanto atteso – svenimento squisitamente settecentesco (“Io svenni dal terrore, vedendo tutti così violenti”), generato da un litigio tra la famiglia di Clarissa e il signor Lovelace, la cui presenza in casa risulta scomoda, a causa del desiderio degli Harlowe di unire in matrimonio la propria ultimogenita a un tale di nome Sommes, l’apparente allontanamento tra i due giovani sembra svanire e la loro frequentazione nuovamente tollerata dalla di lei famiglia.

Richardson inserisce, a questo punto, un breve salto temporale di qualche giorno: Clarissa non è più riuscita a prendere in mano la penna – “né le notti né le mattine sono state mie.” – poiché un improvviso malanno materno l’ha tenuta impegnata. La giovane ci dona una descrizione sentita del proprio fratello, presentandocelo come “un giovane di cattivo carattere […] possedendo ogni cosa ha i vizi dell’età matura con l’ambizione della giovinezza, e non si gode nulla – se non la propria alterigia e il cattivo carattere”. Devo ammettere che, a questo punto, non ho potuto fare a meno di notare una somiglianza tra la descrizione di James Harlowe e il signor Lovelace; che Clarissa abbia una visione un po’ troppo bigotta dei giovani uomini?

Veniamo, inoltre, a conoscenza del fatto che il giovane Harlowe sarebbe potuto diventare marito di Anna Howe.

Visto il pesante clima che si respira in casa Harlowe, Clarissa chiede all’amica la disponibilità di trascorrere qualche giorno presso casa sua. Forte, rispetto all’epoca in cui il romanzo è stato pubblicato, è l’affermazione che Richardson pone tra le mani della sua eroina: “E veramente se potessi stare qui serena e felice come lo ero una volta, sfiderei quell’uomo e tutto il suo sesso, e non mi pentirei mai di aver messo il peso del mio patrimonio nelle mani del mio papà”. Pensando alla società settecentesca, non fatico a credere che una presa di posizione simile potesse trovare spazio solo all’interno di un romanzo.

Segue, quindi, una riunione di famiglia nella quale Clarissa sembra quasi posta sul banco di un tribunale privato, riunito al fine di stabilire la sua concessione a partire alla volta dell’abitazione dell’amica. In tale occasione, il fratello pretende che sua padre vieti a Clarissa di vedere – o avere contatti di alcun genere – con il signor Lovelace. La risposta di Clarissa ha tutta la mia stima: “Non lo vedrò, signore, in alcun modo che possa sembrare un incoraggiamento, ve ne assicuro; e anzi non lo vedrò affatto se potrò decentemente evitarlo”.

Cosa accadrà al rientro di Clarissa in casa Harlowe?