Viviamo in un’epoca nella quale sembra che la felicità – intesa come manifestazione fisica di un sentimento per lo più positivo – debba essere esternata costantemente fino a diventare morbosa. Se non si manifesta felicità, allora, si è per forza tristi. La via di mezzo, la consapevolezza, il rispetto di questa fantomatica felicità che tutti sembrano rincorrere nelle fotografie postate sui social e nelle frasi filosofiche aggiunte come status su WhatsApp, non vengono prese in considerazione.

Credo che sia umano – prima ancora che normale – provare tristezza, stasi, noia, disinteresse. Sembra quasi che la nostra società abbia paura della tristezza, non sappia come affrontarla, non sia capace di stare da sola con il proprio silenzio. Chi può dirsi veramente felice? Chi ha il coraggio di presentarsi come una persona costantemente felice, mai annebbiata o abbattuta dalla quotidianità, dalla routine, dall’attesa di quei momenti di intimità al di là della porta di un ufficio, di una scuola, di un supermercato?

Il mondo è fatto di regole; regole che vanno rispettato. A questo non c’è scampo. Le bollette vanno pagate, i mutui vanno estinti, la spesa va fatta, le case vanno rassettate, il “cartellino va timbrato”, i panni vanno stirati, … si potrebbe andare avanti all’infinito. Quante di queste cose rendono realmente felici? Direi nessuna. Eppure vanno fatte. Non per forza con tristezza, ma con consapevolezza, con la concretezza della verità dei fatti, ovvero che tutte queste cose dobbiamo farle. Non si scappa! Per vivere nella socialità, sono necessarie delle regole; e le regole, come tali, vanno rispettate.

Il rispetto, però, dev’essere anche riservato alla propria felicità. Il rispetto della felicità non è l’euforia, l’esaltazione, l’ebetismo. Non è la superficialità, la manifestazione spontaneistica e infantile che può avere un bambino, la mancanza di “piedi piantati per terra”. Si può essere felici pur essendo concreti e consapevoli del fatto che tale felicità – come ogni felicità – durerà quanto deve durare (in genere, poco). Non per questo, si è meno felici: lo si è in maniera più conscia, forse distaccata, ma non meno coinvolta.

In realtà, tristezza e felicità sono poste sulla stessa faccia di una medaglia, sono parte attiva di noi e sarebbe crudele ritenere che una debba per forza sovrastare l’altra. La tristezza è necessaria per vivere con maggiore cognizione gli attimi di felicità; la felicità serve per ricordarsi che la tristezza può passare.

Mi sentivo di condividere questo pensiero, sgorgato nella testa abbastanza in fretta.
Nel frattempo, vi dico che sto scrivendo un po’ più del solito e che presto ci saranno delle belle novità (che sì, mi hanno reso felice).