
“Zenit e la poetica delle cose”, di Rossana Orsi – la recensione
Alle volte ti rivolgo uno sguardo d’intesa,
ma tu non confonderla con l’abitudine.
[…] Se sapessi mentire, non scriverei.

La solita fiaba da lasciare sul comodino, col segnalibro tra le prime pagine per ricordarmi che sono sempre e solo all’inizio.
Tempo, relazioni, Natura collegano le righe gettando un ponte invisibile – eppure palpabile, appena sfiorabile – tra una pagina e l’altra, un momento e quello immediatamente successivo, un sorriso e una lacrima che si inseguono nel concretizzarsi di un gioco unico – quello che ha la forma del libro che stiamo stringendo tra le mani. Rossana Orsi ci spinge a giocare con lei, a prendere le sue mani e seguire il flusso della sensibilità che emerge dal pensiero e dall’inchiostro, andando alla ricerca di una comprensione meno universale ma più reale, condivisibile da cuori che pulsano allo stesso modo sottraendosi al caos di chi non sa – o non vuole – guardare (e finisce, quindi, col non vedere).
Come c’è chi dice di voler esplorare ma non parte mai per primo.
Io scrivo.
Tu viaggia con me.
Io scrivo.
Tu viaggia con me.

Non ho avuto fretta, semmai cura, mi piace chiamarla così. La premura. Che non ha definizioni, che ha unghie retrattili che scavano fino allo sfinimento. Perché è così che sono sopravvissuta all’abbandono. Senza grandi meriti o grandi fortune, con l’umiltà di chi si pone impreparato e disposto ad imparare. Con le scuse nelle tasche e qualche goccio di poesia dimenticato da altri e portato in salvo – nella notte – per rappresentare un bacio da sogno.
[…] Dopo tutto – quel che ho letto – mi so restituire.