E pensare
che qualcuno
ha avuto paura di me.
Quel barista sciupato
sorpreso dalla mia
irruenza adolescenziale;
quel bambino smarrito
che ha tremato
davanti a occhi di fuoco;
quel gatto randagio
che si è dileguato
al mio rumore notturno.
E pensare
che l’unico
che deve avere paura di me
sono io.

Francesco Fontana – classe 1991 – alla sua seconda prova editoriale propone ai lettori la silloge poetica intitolata L’uomo senza pelle, edita NullaDie (collana Sine Poesia). Come spesso accade quando mi cimento nell’esperienza della poesia, anche questa volta ho deciso di lasciarmi semplicemente trasportare dal flusso di parole, dalle concatenazioni di immagini, dall’emersione spontanea di riconoscimenti, accenni, riflessi. L’esito di questo personale trip è stato più che soddisfacente.

Francesco Fontana sceglie di sfruttare il linguaggio al massimo, utilizzando al contempo il minor numero di parole. Le poesie de “L’uomo senza pelle” sono per lo più brevi e condensate, ma trattengono in loro la potente esplosione di una suggestione che solo l’avanzare imprevedibile della marcia dei versi può restituire a chi sceglie di affidarvisi (dopotutto, lo stesso poeta scrive: “incontrarmi sul percorso / vuol dire / regalarsi alla carta”).

Di malinconia
mi sono sempre nutrito
in compagnia di una sigaretta
fumata
al risveglio.
Vivo nella malinconia
preventiva.

Mi manca già
quello che perderò.

I versi de “L’uomo senza pelle” scavano e interrogano, forniscono un’alternativa, concedono ai lettori di sentirsi compresi – o, quantomeno, di sentirsi meno soli, meno bizzarri, meno fuori luogo (“Quello che cerco è un momento di azzurro, / dietro tutte quelle nuvole; / torneranno prepotenti, / ma ora non pensiamoci. Guardami, ho gli occhi come i tuoi.”). A tratti futuristi e marinettiani, a tratti più “emotivi”, i frammenti dell’animo di Francesco Fontana penetrano con facilità nell’epidermide, riuscendo a trasmettere le intenzioni e l’empatia – anche a coloro che generalmente non praticano il terreno della poesia.

La morte
non è davanti,
alla fine della strada.
Dalla morte
arriviamo, perché è
in tutto quello che abbiamo lasciato.
Quello che ci aspetta
è vita da consumare,
quello che abbiamo alle spalle,
è vita consumata.

Ma, in tutto questo, chi è l’uomo senza pelle che Francesco Fontana ha incoronato come rappresentazione visivo-metaforica di questa silloge? Ce lo spiega il poeta stesso, in una delle prime poesie che incontriamo sul percorso d’inchiostro che ha tracciato. L’uomo senza pelle è immagine di tutti coloro che hanno sofferto, di chi trascorre una porzione del proprio tempo a contare le cicatrici rimarginate, di chi ha smarrito la bussola, di chi non ha più fiato per donare il volo ai sogni infranti. “L’uomo senza pelle vive / per arredare la casa dei fantasmi” e “a fine giornata / scende le scale, lascia il brusio in superficie, / e fa la conta dei fantasmi. / Dei mostri. Dei prodigi“: l’uomo senza pelle è quello che rimane di noi, la sera, quando ci infiliamo tra le lenzuola supplicandone la protezione dal mondo, dopo esserci levati di dosso l’epidermide di virtù che indossiamo dall’alba per raccontarci – e mostrare al mondo – di non essere diventati un’assenza.

Non so vivere
l’attesa,
mi fa paura il silenzio;
è morte.
Amami
odiami
ma fallo subito
e fallo forte.
Non ho più tempo
per aspettare,
sto diventando
assenza.